La rappresentazione della malattia mentale attraverso il cinema:
dagli Anni Venti ai giorni nostri
La psichiatria è un tema che ha influenzato spesso la storia del cinema, poiché la tecnica cinematografica, solo attraverso le immagini, riesce bene a rappresentare direttamente i molteplici aspetti della psiche umana. Oltre a ciò, i film esercitano un notevole impatto emotivo e suscitano intensa attenzione negli spettatori, anche se non appartenenti alla categoria degli "addetti ai lavori". Il cinema diventa così strumento didattico e di approfondimento per un pubblico più vasto che attraverso il film si può avvicinare alla conoscenza delle patologie mentali, fin troppo sconosciute ai più, a causa dello stigma che le caratterizza. Dal canto suo, l’industria cinematografica ha mostrato da sempre un notevole interesse per la medicina e soprattutto per la psichiatria. Cinema e psichiatria, nati nella stessa epoca, hanno fin dall’inizio condiviso lo stesso soggetto: pensieri, emozioni, motivazioni, comportamenti e storie di vita rappresentano per l’uno e l’altro la principale, complessa, materia di studio. Fin dalla nascita del cinema gli psichiatri hanno studiato i film per comprendere le ragioni del loro fascino sugli spettatori. E già nel 1906 il primo psichiatra, il comico Dr. Dippy di Dr Dippy's Sanitarium, faceva la sua comparsa in un cortometraggio: da allora, psichiatria e cinema non hanno mai cessato di incontrarsi, allontanarsi, intersecarsi di nuovo.
Il gabinetto del dottor Caligari, un film muto del 1920 diretto dal regista tedesco Robert Wiene, costituisce uno dei primi esempi di rappresentazione di un disturbo mentale nella storia del cinema, giocando moltissimo con il tema del doppio e della difficile distinzione tra allucinazione e realtà. Il dott. Caligari controlla un sonnambulo ordinandogli di compiere cruenti omicidi. Smascherato e inseguito dalle forze dell'ordine, il dottore si rifugia presso un manicomio di cui in seguito si scoprirà esserne il direttore, che in preda all'insaziabile desiderio di ricerca nel campo del sonnambulismo, aveva schiavizzato un paziente affetto dal disturbo per esibirlo in spettacoli di paese. Mentre il racconto di Franz, un testimone, termina con la detenzione forzata di Caligari nel suo stesso manicomio, lo spettatore è ricondotto fuori dal lungo flashback, in tempo per scoprire che tutti i personaggi del racconto di Franz sono in realtà i suoi stessi compagni. Franz, infatti, è rinchiuso in un manicomio e tutto il racconto è frutto di allucinazione, in cui il dott. Caligari viene rappresentato con le sembianze del dott. Oscar, il responsabile dell'istituto correttivo. Contribuiscono all’effetto una scenografia allucinante caratterizzata da forme zig-zaganti, lunghe inquadrature girate in scenografie allucinate dalla geometria distorta, con spigoli appuntiti, ombre minacciose, strade serpentine che diventano vicoli ciechi. I personaggi recitano col volto pesantemente truccato, in particolare il sonnambulo, che ha gli occhi cerchiati di nero. Tale ambiente trasmette e partecipa della paura e della distorsione mentale dei protagonisti: da questo semplice indizio lo spettatore dovrebbe già capire di trovarsi in un mondo onirico e allucinato e non nella "vera" realtà. Proprio su questo punto si incentra la vera controversia del film: il finale (in cui si capisce che la vicenda è solo il sogno di un pazzo e che il medico è sano) riporta tutto ad una realtà schizofrenica e fu imposto per non attentare allo status quo dell'autorità, eliminando il valore di critica socio-politica del film, girato durante la Repubblica del Weimar. Da ciò deriva che la visione espressionista sia quella di un folle: l'arte moderna non ha senso ed è pura pazzia.
In piena contestazione giovanile un altro capolavoro scosse profondamente le fondamenta dell’opinione pubblica in merito ai trattamenti cui erano sottoposti malati mentali mentre il mondo si coccolava tra i benessere del boom economico: il romanzo di Ken Kesey Qualcuno volò sul nido del cuculo, da cui Milos Forman trasse l’omonimo film nel 1975. L'autore scrisse il libro in seguito alla propria esperienza da volontario all'interno di un ospedale californiano. Il film denuncia in maniera drammatica il trattamento disumano cui erano sottoposti i pazienti ospitati nelle strutture ospedaliere statali, verso cui vige un atteggiamento discriminatorio alimentato dalla paura dell'aggressività dell'alienato mentale. La domanda di fondo che il film suscita riguarda l'esistenza di una base certa che funga da parametro nello stabilire la linea di demarcazione che separa il mondo della normalità da quello della follia. Nel film, la pazzia è vista come un "non luogo", come un qualcosa che il protagonista ha dentro di sé e vuole portar fuori, quasi a voler dire che in fondo una certa dose di pazzia è insita in ogni uomo, anche in chi non viene ricoverato in manicomio. Emerge quindi una visione relativista del concetto di follia, tanto che durante il film può nascere il dubbio se nel manicomio i veri malati siano proprio i pazienti, e non gli infermieri e i medici che li curano e che hanno anche loro i propri problemi psicologici, più o meno visibili: l'idea di normalità perde notevolmente significato. Per metafora, il nido è il manicomio e il cuculo l'infermiera capo, che con il suo staff si insinua nelle loro menti e se ne impossessa, distruggendone ogni potenzialità. Quel “qualcuno” è Randle, delinquente mandato “tra i matti” per correggere alcuni suoi comportamenti ribelli: sarà lui a smascherare il carattere repressivo dell'istituzione, pagando per questo il duro prezzo dell'uso indiscriminato che veniva fatto di lobotomia ed elettroshock. Le sedute di psicoterapia presentate sono numerose e molto significative. Ogni componente viene descritto e rappresentato con molto realismo e i personaggi sono fedeli al loro stato di malattia in ogni momento. La conduttrice delle sedute di psicoterapia di gruppo, la Signora Ratched, esprime lei stessa la propria sofferenza psichica, cercando di prendere le distanze dalla malattia mentale, che pretende di chiarificare, sforzandosi di inquadrarla in un insieme di rigide regole, come se la malattia psichiatrica si potesse curare con un insieme di imposizioni. Così, la Signora Ratched finisce per usare in modo autoritario la sua funzione terapeutica, rendendosi odiosa e disumana. Le fa da contraltare Randle, abituato a infischiarsene di qualsiasi regola. Ci viene presentato un ospedale psichiatrico modello, con campo di basket e piscina, una sala per l'idromassaggio, adiacente al dormitorio. Gli ammalati sono suddivisi per gravità di malattia, per cui i meno gravi non devono sopportare la malattia dei più gravi. Gli ammalati meno gravi, sono relativamente liberi e vengono condotti in città con l'autobus. I medici si vedono poco, ci vengono mostrati solo nei propri studi a dare disparati giudizi sulla salute mentale e sulla pericolosità di McMurphy. Particolarmente realistica ed agghiacciante è la resa cinematografica di una seduta di terapia tipo della malattia mentale grave negli anni '50, l'elettroshock.
Nel 1988 il filmdi Barry Levinson Rain Man introdusse per la prima volta sullo schermo un raro, strabiliante ed inspiegabile disagio: l’autismo, prima di allora considerato un handicap tanto che il suo nome in inglese è stato per decenni “idiot savant sindrome”. Nel film, Dustin Hoffman interpreta il malato Raymond Babbitt, che un giorno viene strappato dalla clinica in cui viveva da decenni da Charlie, suo fratello minore che non l’aveva mai visto. Il primo è autistico, ossia è portato ad estraniarsi dalla realtà rendendo impossibile, per una persona, capire i suoi reali sentimenti. Il secondo è un venditore di auto sportive, ignaro di avere un fratello, ma che apprende della sua esistenza dopo la morte del padre che lascia in eredità tutti i suoi cospicui averi proprio all’"handicappato" Raymond. Charlie si reca alla casa di cura e rapisce il fratello, sperando, in questo modo, di riguadagnare una parte di quei soldi che tanto avrebbe voluto avere. Egli dovrebbe attraversare tutto il paese per tornare nella sua città, a Los Angeles, ma essere costretto a fare il viaggio con il fratello lo porta, poco alla volta, ad apprezzare Raymond, e ad identificarlo con “l’uomo della pioggia”, soprannome che aveva dato da piccolo ad un fantomatico personaggio che soleva cantargli canzoni per tranquillizzarlo e che si scopre essere appunto Raymond. Inoltre, l’autistico Raymond è un genio matematico e dispone di una memoria migliore di quella di un calcolatore IBM dei giorni nostri. Leggendo l’elenco telefonico impara tutti i numeri fino alla E, con lo sbalordimento del fratello minore. Deciso a sfruttare l’abilità del fratello maggiore, Charlie si reca a Las Vegas con Raymond che, grazie alla sua portentosa memoria, riesce a far vincere al fratello una somma enorme al Black Jack. Ma le cose belle finiscono, così Raymond viene costretto a ritornare all’istituto in quanto impossibile per lui vivere e relazionarsi con il mondo esterno; a Charlie, ormai affezionatosi al fratello, non resta che accompagnarlo al treno che lo riporterà in istituto e a seguire mestamente con lo sguardo un fratello che ama, ma che oramai ha perso per sempre.Il film, dal punto di vista qualitativo, è di altissimo livello. La regia è sensazionale, con una scelta di inquadrature ed immagini che fotografano in modo mirabile l’esistenza di una persona chiusa in se stessa e costretta a rifugiarsi nella sua anima per non essere ferito da agenti esterni. Una specie di rifiuto del mondo. Il rifiuto del mondo che lo rifiuta. In questo sta il gioco del film. Un lungo viaggio alla conquista del proprio spazio e nella ricerca di punti di riferimento esterni capaci, se non di incrinare la solida armatura morale ed emotiva di Raymond, perlomeno a conquistarne la fiducia. Alla fine tutto è come prima: Raymond non è cambiato e ritorna da dov’era partito: l’istituto che lo ospitava. Per Charlie tutto è come prima. Può ritornare alla sua precedente attività senza la preoccupazione del fratello. Anche lui torna, però, da dov’era partito molto tempo prima: l’idea che non è solo e che, forse, d’ora in poi, sarà lui a dover cantare una canzone a suo fratello per tranquillizzarlo. Dustin Hoffman si muove sul set come un vero autistico, ne cattura le espressioni ed i comportamenti facendoli vivere con straordinaria drammaticità. Nel vederlo ondeggiare ripetutamente avanti e indietro ripetendo senza fermarsi la stessa frase, si ha la sensazione di doverlo fermare in qualche modo, preso com’è forse da una latente rabbia, voglia di gridare . Una rabbia che monta ancor più alta quando lo si vede partire sul treno, senza che gli sia concesso vivere con il fratello e senza che possa esprimere i suoi desideri. Alla fine del film il triste messaggio della nostra società: il posto giusto dove uno come Raymond può trascorrere la sua vita è un istituto. Un film bellissimo e travolgente, che farebbe smuovere gli animi più cinici, commovendo sino alle lacrime con le gocce di rimpianto che si provano dopo aver visto film come questi. Hollywood ha rappresentato dei personaggi con caratteristiche autistiche in diversi film popolari, come lo stesso Rain Man, ma mentre il ritratto dell’autismo in questi film tende a focalizzarsi su individui autistici dotati in matematica (“autistici dotti”) che sono socialmente inetti, la realtà di questo disturbo è molto più complessa.
Stilare una lista completa dei film che nel corso della storia del cinema hanno trattato di psichiatria e malattia mentale costituirebbe un'impresa pressochè impossibile vista l'incredibile espansione, a livello globale, che ha interessato l'industria cinematografica negli ultimi decenni.Occorre tuttavia precisare che, tra i vari disturbi psichiatrici, la schizofrenia al cinema è stata dipinta in diverse occasioni in maniera abbastanza convincente (La fossa dei serpenti [1948], I Never Promised You a Rose Garden [1977], A Beautiful Mind [2001], Spider [2002]), capolavori che offrono una descrizione efficace e chiara di alcuni degli aspetti che caratterizzano i sintomi e il decorso cronico e invalidante della schizofrenia. Secondo Glen Gabbard, il film, in effetti, è “uno dei migliori, se non il migliore ritratto di che cosa sia la schizofrenia”. Al pari della schizofrenia, anche i disturbi dell’umore vengono a volte presentati in maniera convincente, sia per quanto riguarda la mania (Capitan Newman [1963], Mr. Jones [1993]), sia per la depressione (Il settimo velo [1945], La figlia di Caino [1955]); diverso è il caso della filmografia relativa ai disturbi da abuso o dipendenza da
sostanze che prevede spesso un ricorso massiccio agli stereotipi, tanto da permettere la categorizzazione del personaggio in figure caratteristiche come l’“eroe tragico”, in lotta con il desiderio di assunzione di alcol o stupefacenti (Via da Las Vegas [1995], Requiem for a Dream [2000], Paura e delirio a Las Vegas [1997]). Anche i disturbi di personalità sono stati frequentemente rappresentati sullo schermo, e nella maggior parte dei casi vengono descritti pazienti che mettono in atto stili di comportamento maladattivi e non ricercano l’aiuto dello psichiatra. Tra i più celebri ricordiamo Arancia meccanica [1971] per il disturbo antisociale di personalità; Alice’s Restaurant [1969] e In cerca di Mr. Goodbar [1977] per il disturbo borderline, American gigolo [1980] per l'esasperazione dei tratti narcisistici della personalità. Infine, tantissimi sono i contributi cinematografici che ritraggono la vita all'interno degli istituti psihiatrici in diversi paesi ed epoche: Il grande cocomero [1993], Ragazze interrotte [1999], La casa dei matti [2002], Prendimi l'anima [2003], fino al recentissimo Si può fare [2008].
Ilaria Gualmini
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